Ho vissuto gli ultimi anni di “Esercito 61” come capo-sezione. Erano gli anni 80 dello scorso secolo. Poi seguì “Esercito 95”. Ero comandante di compagnia. Poi arrivò “Esercito XXI”. In questo esercito ho comandato un battaglione. In questi anni si sono succedute diverse generazioni di cittadini, dove la percezione della sicurezza si è trasformata con il tempo.
Ma cosa è cambiato? Lo storico e giornalista olandese Geert Mak nel suo splendido Pamphlet “Cosa succede se crolla l’Europa”(1), afferma con chiarezza che “la qualità della vita relativamente alta ha portato noi europei ad assumere un atteggiamento più rilassato, il che è stato di per sé una grande conquista. Ci ha però fatto anche addormentare, cullandoci in molti sogni e troppe illusioni. Bene, Geert Mak, si riferiva alla crisi dell’Euro e più concisamente alla crisi finanziaria che attanaglia non solo l’Europa, ma anche la maggior parte del Mondo Occidentale. Analogamente, la riflessione vale anche per la percezione che abbiamo sulla sicurezza di uno stato. Dove diavolo è il tanto caro nemico? Sparito? Introvabile? E così, dopo gli avvenimenti epocali post Guerra Fredda, l’Europa ha iniziato a ridurre i bilanci destinati alla difesa. L’Europa ha smobilitato.
Suicidio strategico?
Una riduzione degli eserciti di massa era si necessaria, ma fino a che punto? La storia – in ambito della sicurezza nazionale – è contraddistinta da momenti di maggior o minor investimento. Trovare il giusto equilibrio però non è facile. Troppi interessi sono in gioco. Il caos è sempre in agguato, dove per esempio il fallimento della moneta comune europea, potrebbe generare una penuria di carburanti, un’iperinflazione, un blocco dei pagamenti delle pensioni e degli stipendi, oppure un blocco dei conti bancari”(2). Tramite la giurisprudenza, noi cerchiamo di dare concretezza al valore della pace, ma è anche vero che la mancanza di chiare regole può trascinare una società nel panico (3). Nelle parole di Benedetto XVI, possiamo trovare altri motivi che avvalorano quanto sopra-citto; “sotto il profilo demografico, si deve purtroppo constatare che l’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia. Ciò, oltre a mettere a rischio la crescita economica, può anche causare enormi difficoltà alla coesione sociale e, soprattutto, favorire un pericoloso individualismo, disattento alle conseguenze per il futuro. Si potrebbe quasi pensare che il continente europeo stia, di fatto, perdendo fiducia nel proprio avvenire” (LIMES, 3 aprile 2013, pag 156).
Oggi, viviamo in una calma apparente.
La disoccupazione giovanile cresce in diverse parti d’Europa, il mondo globalizzato sta attraversando una successiva fase epocale di transizione o di assestamento della leadership globale, fra gli Stati Uniti e la potenza emergente, ovvero la Cina. Potrei continuare. Torniamo però brevemente a disquisire sulla disoccupazione. La pubblicazione da parte di un settimanale olandese che ha messo a confronto alcuni dati europei con quelli che si riferiscono al mondo arabo, ci dovrebbero farci preoccupare o almeno, riflettere sulla reale o presunta sicurezza: “La Spagna presenta un tasso di disoccupazione giovanile del 46%, uguale a quello dei Territori palestinesi. La Grecia 39 % uguaglia il risultato dell’Arabia – Saudita. L’Irlanda, i Paesi baltici e l’Italia, con il 30 %, si pongono al livello dell’Egitto. Nei Paesi arabi i giovani, furiosi per essere stati privati di un futuro, si sono impossessati delle strade, e poi dello (4) Stato. Non possiamo quindi escludere la possibilità che eventuali peggioramenti (5) di questi indici, accompagnati da un generale aggravamento delle condizioni sociali, possano sfociare anche in Europa in conflitti che avrebbero il pregio – o per meglio dire, il difetto – di destabilizzare uno o più paesi. “Quella che stiamo vivendo non è una semplice crisi. È un passaggio, a un’altra fase storica, una crisi che colpisce le fondamenta delle nostre società occidentali”(6).
Lo sviluppo di una società moderna, globalizzata e molto tecnologica interagisce su più livelli, siano essi interni alle frontiere, siano essi esterni. La falsa percezione di vivere nella più completa sicurezza può indurci a sottovalutare gli insegnamenti della storia. Il fatto che ora il potere politico è gestito da personalità che non hanno più un legame con alcuni – e anche tragici – avvenimenti del nostro passato, può indurre, non per ignoranza, non per mancanza di coraggio, a sottovalutare il significato della sicurezza (dello stato). Questo concetto vale anche per i timonieri delle nostre economie. Scelte scellerate, improntate solo sul profitto e a discapito di una parte della popolazione sia autoctona sia estera, possono avere conseguenze disastrose sull’assetto sociale della propria nazione, regione o coinvolgere – grazie alla globalizzazione – diversi altri attori statali e/o privati.
John Gray scrisse “… the aftermath of September 11th has produced a new kind of unlimited war. The Hobbesian anarchy that flows from failed states has enabled stateless armies to strike into the heart of the world’s greatest power. In response the US and other liberal regimes are turning themselves into Hobbesian surveillance states (7). Dunque, l’illusione post Guerra Fredda, ha lasciato il posto ad una società tendenzialmente poliziesca. Sicuro è che in questo periodo i conflitti si sono ulteriormente evoluti, modificati; che lo vogliamo o meno, sono e stanno cambiando. Anche ora. Sì, proprio in questo momento! La forma dei conflitti sarà probabilmente contraddistinta dall’aumento della popolazione, dalla difficoltà di trovare le materie prime, e dal cambiamento climatico. Da non sottovalutare è anche la possibilità del fallimento di uno o più stati e un ipotetico scontro etnico-religioso (8), senza dimenticare il ruolo dell’economia e sui suoi possibili contraccolpi, già brevemente citati in precedenza. Lo storico Arnold Toynbee (1889-1975), sosteneva che le civiltà crollano soprattutto per declino interno, e non per fattori esterni. Concordo! L’Europa, il Mondo Occidentale, oggi più di ieri, sembra aver perso la via maestra. Soprattutto l’Europa conosce una mancanza di voglia di futuro. Probabilmente un’assopita svogliatezza; il nemico tradizionale è sparito, il benessere è – per un certo verso – assicurato, il collettivismo ha lasciato il posto all’individualismo, le generazioni più giovani conoscono solo il tutto e subito. Insomma un potente cocktail che, se bevuto in dosi maggiori, può portare a spiacevoli malesseri. Questa è solo una prima fondamentale certezza. La certezza che dobbiamo stare all’erta. Non è disfattismo, bensì è solo realtà.
Se non è zuppa è pan bagnato
La storia è un ripetersi di costanti, così, con il tempo e secondo gli umori, e delle mode, si riscoprono testi del passato quali “Il Principe” di Niccolò Machiavelli (cinquecento), “Small Wars” di Charles Edward Callwell (ottocento) e “Contro insurrezione” di David Galula (novecento), tanto per fare alcuni esempi. Ebbene questi testi, una volta riletti nel contesto odierno, trovano una loro “modernità” e possono tracciare una possibile via maestra. In altre parole: niente di nuovo sotto i ponti. Malgrado però queste constanti, le elite politico-militari hanno difficoltà nell’intraprendere passi concreti volti a dare delle valide risposte alle sfide del domani. Perché se è vero che la storia conosce delle similitudini, è anche vero che il futuro non sarà mai uguale al passato.
Così è consuetudine prepararsi per una guerra che non vedremo mai e che verosimilmente al momento cruciale, assumerà un’altra forma.
Ma è inutile ripetersi, siccome anche quanto detto è una lezione che riscopriamo ogni volta.